Il mondo secondo Pacor quale realtà da interpretare secondo poesia: creare un proprio alfabeto non come sconfitta dinanzi al quotidiano, ma come dimensione dove esprimere un precipitato di sensazioni, gesti, emozioni. D’altronde l’arte è uno strumento di conoscenza, è un modo non analitico per guardare il mondo, che enfatizza la nostra percezione e mostra il senso delle cose. Attraverso l’elaborato degli artisti possiamo apprendere verità che ci conducono fino al nostro essere, alla nostra individualità.
Come già teorizzavano gli artisti dell’avanguardia ne ‘Le Surréalisme au service de la révolution” la tradizione e il metodo sono al servizio dell’audacia sperimentativa. Il sogno non segna una rottura rispetto al dato fenomenologico, al contrario: la libertà di azione permette di elevare il dato dell’esperienza ad una dimensione poetica. Attraverso l’osservazione, soprattutto nell’attenzione rivolta in particolare alle minuzie del mondo, Pacor produce infatti immagini. La plastica, la produzione più conosciuta dell’autore, è certo intesa in questa accezione, quale appiglio per una costruzione di mondi che si serve di ogni tecnica operativa. In tal senso anche la produzione più defilata al grande pubblico diventa un bacino di ispirazione e sperimentazione in cui già il semplice foglio bianco costituisce un campo di azione imprescindibile.
Sempre e comunque una inventività brulicante, che cerca nuovi spazi di movimento in cui prendono forma segni e forme quasi partorite sulla sabbia. Nella sua ricerca c’è una specie di sistema circolatorio, quasi organico, in cui lo studio diventa una sorta di orto e in cui l’autore lavora come un giardiniere. “Ogni cosa ha bisogno del suo tempo — afferma Pacor — e il vocabolario di forme non deriva da un’unica riflessione ma si è formulato quasi nonostante me”. Le opere sembrano pertanto seguire un loro corso naturale, crescono maturano e si diversificano in più innesti ibridi in cui ceramica, disegno, scultura, pittura si intrecciano vicendevolmente.
Ho insistito sulla componente naturalistica della vena di Giovanni Pacor senza volere con questo sminuire o negare l’umore estroso e fantastico; anzi i due aspetti – naturalezza e fantasia – non si escludono a vicenda in un uomo che di fronte ai soggetti più comuni e tradizionali si sottrae a comodi schemi, a soluzioni scontate per rinnovare continuamente, in base al dato naturale ma con il continuo pungolo della fantasia inventiva, le sue composizioni.
Quello così ipotizzato è un universo in apparenza fragile, creato da sagome ed arabeschi proiettati nell’aria come fumo di sigaretta, che salgono in alto ad accarezzare le nuvole. Composizioni equilibrate, ritmiche, perfette conchiuse in se stesse, quasi che l’artista voglia additare l’arte come unica forma di orientamento e ordine in un mondo che sembra averli smarriti.
Le figure sembrano pertanto sbocciare dalla ricchezza di possibili variazioni della struttura lineare e, assieme ad una tecnica quasi contrappuntistica degli elementi tonali, fanno pensare al linguaggio della musica.
Come le architetture di Bach o alla purezza di Mozart, con la generosità di un mondo vitale e vibrante, Pacor evoca continuamente l’amore come unica soluzione contro la tanta bassezza e volgarità del quotidiano. In questa veste, alcune forme suggerite ne reclamano altre per equilibrarle; queste a loro volta rimandano ad altre ancora secondo un processo potenzialmente interminabile. Gli studi, i disegni, le opere ultimate appaiono effettivamente concepite come una sorta di tessitura musicale, una stesura di tale fluidità da riuscire pienamente a celare lo sforzo, il lavoro metodico e paziente che sta alla base di tante elaborazioni.