Il primo caldo – è primavera a Milano – non suscita un senso di fiori o prati verdi di smalto e di linfa, ma l’appiccicoso sudare del cemento nell’aria immota sotto un cielo coperto. Par quasi che per la città ristagni in una stanchezza monsonica, e nulla più fa voglia di vedere, ha potere di chiamare. Otto pazienti si sono susseguiti nello studio, ciascuno con il suo carico di ansie e di paure, ma più che tutto, con la stanchezza di vivere un tempo senza più sogni, un momento senza più mistero. Seminar nel deserto senza che in loro né in me possa calar la convinzione del domani, perché la società dei consumi ha consumato sin d’ora tutto il cielo.
Il sole non ha più spazio per calare, né una tepida notte – sogno di un tempo e di un momento lontani – suggerisce il sogno possibile, la fiaba dell’essere.
Otto pazienti, e la loro vicenda comune a tutti, oggi, a Milano, in Italia. Poi salgo a casa, e mi trovo un fascio di disegni. Sono quelli di Pacor, colti nella Cina lontana nello spazio e nel tempo, e son d’improvviso nella notte, nel sogno, tra i fiori; vivo, felice, nuovo. Un miracolo.
L’ansia del divenire s’è quetata, la speranza d’essere ancora in un mondo come gli utopisti lo sognavano ed io speravo un tempo, è rinata con tutti i suoi profumi; ed io li aspiro, me ne empio il torace, è linfa nuova, è vita.
Guarda questa pennellata rapida, questo segno liquido e denso, e il variare delicato di un petalo. Guarda questo sorriso di bimbo: leggi nei suoi occhi la certezza che la terra darà sempre frutti, l’aquilone volerà nel vento.
Luoghi comuni, frasi comuni, certo. Ciò che sento non è esprimibile, e le parole corrono via come vecchie monete consumate, antico rame senza più valore, mentre il disegno è qui, immutato, e ad ogni sguardo mi ripete il miracolo. Questa è arte; ma più ancora è un uomo che ha saputo sentire, è un uomo che sa scrivere in modo che tutti leggano, anche gli analfabeti.
Ciò anzitutto è da dire di Pacor uomo: disponibile al contatto, diretto nella sua stretta di mano, con sguardo franco aperto e sincero. Come l’uomo, così l’artista. Ha capito la terra, la serenità dei campi e dell’animo di chi nei campi vedere ancora la serenità della terra; ed ha capito questa “Grande madre” (il secondo pa-kua, che incontriamo nel I King). E oltre a questo accostamento a valori autentici della “razza umana”, oltre al rispetto per questa astronave lanciata nello spazio – di cui tutti noi siamo passeggeri temporali presto accecati dalla luce della morte – Pacor è anche un sognatore; e ci propone inquietudini e fantasie, desideri come visti con occhi candidi di fanciullo libero. “Alzarsi al mattino e guardare un quadro di Pacor infonde speranza nella giornata che ci attende. E’ come ricevere il buongiorno da una persona amica. Anche quando le nubi premono la pittura di Pacor è un raggio di fede”. Così Ancelo Colleoni, che ha ben studiato la pittura di Pacor, nel “Piccolo di Trieste” del 7 ottobre 1975.
Pacor quindi doveva incontrare la Cina: non quella fantasticata, letta nella sua cultura, manipolata oggi a scopi propagandistici da una parte o dall’altra: quella autentica. Vittorio Bottino, ad una mostra torinese di questi disegni così ha scritto: “Son pagine sciolte di grande suggestione: la gente che riposa o lavora, i vecchi, i bambini, le strane case, i risciò, tante biciclette. Un popolo visto con un’ottica disincantata e senza pregiudizi; appunti colti nelle città, nei paesi e nelle campagne e poi ribaltati sulla carta, pure cinese, che è già un prodigio di tecnica” (in “Corriere di Torino e della provincia”, 25 maggio 1979).
In effetti, come Pacor ha visto la Cina non è fatto episodico, e di là dell’aneddoto diciamo ch’egli ha visto vivere, ha capito la vita. Nella Cina – come altrove -, ha colto un’espressione di bellezza, ma la usa per indicarci una parola di bontà. Scorge oltre le forme, oltre le limitazioni aberranti di confine e di politica, di ideologia o di coercizione fenomenica, la realtà dell’eterno. Realtà del semplice, candida come acqua di un fiume, come il rifiorire del pesco che è pur bello da gridare al miracolo ma che molti in Occidente non sanno più intendere. L’ansia demoniaca del consumismo li ha accecati. Così il segno liquido del pennello bagnato, il correr dell’acqua con quei suoi aloni saputo che il caso arricchisce (e il “caso” in effetti non esiste, bensì v’è l’inconscio, la pratica e il superamento del saputo) le sfumature dosate per suggerire e suggestionare son cose che fan bagaglio tradizionale e al contempo lasciano spazio all’invenzione individuale, allorché v’è l’arte e il valore. Come un sole di mezzanotte indeciso tra i punti cardinali che giocano ai quattro cantoni… ; ma la bussola del gusto traccia comunque la direzione corretta, ché queste opere vanno sentite più che viste, e se non s’ha senso poetico rischiano di mostrare di sè solo il momento fissato. Valori quanti ne vorranno elencare i critici, ma diffido dal leggerli prima d’aver visto. Si veda col senso del proprio capito, abbandonandosi al fascino dell’imprevedibile senza sovrastrutture difensionali; senza la prigione ferrea del razionale preconcettuato.
Con tutto ciò, sappiate, non ho ancora definito qual è la collocazione – forse il terzo incomodo? – di chi scrive critica d’arte, e tale semmai mi voglio chiamare a ragione di cattedre universitarie. Ma a che serve il critico? Io vi dico ciò che ho sentito davanti a questi disegni di Pacor, ma solo perché gli son grato d’avermelo fatto sentire; e ancor glie ne dovrei esser grato perché con questo testo esprimo quello che sento.
Che è la critica senza l’artista, dal momento che l’artista vive pur senza critica? Ombra labile della statua solida, la critica annoti allora che questo Pacor è un mondo di suggerimenti e di sensi; è ricco di tutto ciò che la Cina contiene, è l’antologia d’una compiutezza del sentire cui forse dà ulteriore parvenza esterna la critica d’arte. Ma un solo fatto è di là da tutto ciò: da Pacor, dalla critica e dalla Cina. La sua opera.
Vorrei quasi – per intenderla nel pieno del suo essere – ch’essa fosse anonima (come non poche opere cinesi a quanti il cinese non sanno leggere) e liberasse senza la mediazione dei preconcetti occidentali questo grido di vita e d’essenzialità che è contro le sovrastrutture culturalistiche e contro la radicalità del sentir materia; sovrastrutture e radicabilità occidentali che si zavorrano della propria conoscenza e di questo si fan peso per sprofondare sempre più nell’oceano del Tempo del disastro e della decadenza.
E ancora: oltre il fatto che questa Cina di Pacor va letta da noi, va vista attraverso i “nostri” contenuti, essa va ancora guardata foglio dopo foglio: in movimento e successione di immagini. Noi abbiamo un senso dell’arte che ci fa rimanere immobili nel contorno di un dipinto o tra la prima e l’ultima pagina di un libro.
Ma vi sono in essi movimenti e flussi che afferrano il fruitore e lo trascinano a vivere una vicenda in prima persona, a scalare le montagne del transitorio minuto dopo minuto.
Così anche un singolo foglio partecipa ad una vasta confluenza di movimenti, e una immagine di Cina-Pacor è alliterazione della precedente e assonanza della susseguente. Afferrare il Tempo? Questo lasciarsi andare al suo movimento è in ultima analisi la più alta verità dell’Arte e di tutto il nostro essere.
Quanta gente lo capirà? Quando guarirà dai suoi mali psichici capendo che la perfezione consiste “nel lasciarsi essere”? D’altronde ognuno di noi è affidato a se stesso. Nel nostro immento Profondo che è il solo elemento del giudizio di noi, c’è il sapere e l’ignorare e l’inferno e il paradiso; da noi stessi ci osserviamo e ci giudichiamo.
Di fuori da noi c’è il limitato, il transitorio. Fruiamo dunque apertamente del diritto di giudicare Cina-Pacor da noi stessi. D’altronde, pur senza vederlo, di tutto ciò il pittore è testimonianza; pur senza vederlo pone tutto ciò come misura nascosta e parola incommensurabile nelle sue opere, quando è artista. E se tutto questo possiamo leggerlo anche in Pacor, lasciamoci dunque andare a questa lettura dell’anima.
Di là delle sofferenze v’è la luce. Quanta luce nelle acquerellazioni di Pacor; poiché ogni espressione d’arte è un tributo alla speranza, ed un tempo dedicato al sogno. Si rinnova il desiderio di un tempo felice, s’apre la comunicazione d’ogni individuo con il suo prossimo, si costruisce per la pace e non per la guerra. L’arte in ogni sua manifestazione è del tutto all’opposto dell’ignoranza e della distruzione, chè pretende per vivere cultura e conservazione e dunque pace, armonia, amore. Mi par che tale piuttosto sia il messaggio di questi momenti cinesi, e non si creda che la raccolta sia dovuta ad un intento propagandistico. E’ bello per un artista quando le sue idee gli si svolgono sotto gli occhi, si trovano lì, fuor da lui, nella completezza del pensato. Per questo è fredda ed arida l’arte su commissione per illustrare pedissequamente un concetto non sentito. Così ad uno ispira Venezia, all’altro Parigi o ad un altro i sogni; altri ancora si accostano alle figurazioni tantriche, ed io trovo espressiva del mio stato psichico l’arte islamica. Così Pacor – in Cina – si è trovato davanti a sé tempo sognato e materia continua al defluire del sentimento e della sua arte che dentro di lui urgono cercando strada e tema. Il soggetto non è allora il complemento precipuo dell’artista? Connubio dunque ottimale, matrimonio felice, questa Cina e questo pittore – non artificiosa l’una, non truculento l’altro; sinceri entrambi – entrambi carichi di vissuto poetico e di ansie, o di pacate superficie temporali estese da buono a buono, assonanti, correttamente unite come due rime baciate. A noi d’avvertirne il senso; a noi creare la triade d’arte, con il nostro capire e la felice assunzione del fatto d’arte come espressione dei sentimenti che – eguali – pur entro di noi cercano uscita. Ché fuori è perenne tragedia: un mare tempestuoso in cui alti flutti spazzano i campi piatti e solo si salvano isolati scogli aridi ma sicuri. Questa visione d’apocalisse si adatta ad una realtà che il tempo e gli esseri e il momento politico vogliono nascondere o ignorare; ma che incalza giorno dopo giorno: è la crisi dello spirito e su un mondo morto per i morti e vivo per i pochi che credono, risorgerà il sole della Fede: fede nello spirito del Sé individuale. I pochi che credono in se stessi viaggiano nel deserto ascoltandone gli immensi silenzi senza morirvi. Senza morire domani nel deserto del mondo a venire.
Quando io sono stanco, e stanco perché sazio di sapere, non mi va di gustare alla pittura saggia e gradevole. Così questa verità d’oggi, stanca, stentata, è un grido sempre più alto, arte di poco conto ma di grande impatto, subito noiata dalle sensazioni. Sazi, o non piuttosto intossicati? Dove trovare l’antidoto? Ci è parso che più nessuno potesse dipingere senza esacerbare; potesse mostrar di sé il valore di una testimonianza senza demolir tutto ciò che era stato dianzi; e demolire, distruggere, far rumore.
Mancava la poesia; non era intesa, o non era abbastanza forte l’urgenza intima dei sentimenti; ché tutto si impara, anche a dipingere bene, ma poeti si nasce. Ecco dunque tutto Pacor, in ultima analisi: le rime son facili, il tratto del pennello non disegna, ma è solo saputo, non grida: narra i sentimenti, piano e queto conduce per mano quell’intima parte di noi che aspira al sentimento, e ci sentiamo sicuri nelle sue tavole. Disegno dopo disegno sgrana un poema di sensazioni liriche, che voce limpida, con un fondo di sofferta intima vibrante poesia, per cui ci rendiamo conto, gustando queste opere, di quanto la poesia ci mancava, di quanto è necessaria. Le grandi tappe dell’umanità sono scritte in prosa il Capitale oggi, il Corano ieri, e i Vangeli alla base di tutta la civiltà dell’Europa. Ma le tappe del sentimento individuale son segnate da pochi versi; da memorie e da sopori cullanti; da dipinti intimi e da queste tavole di Pacor che ci restituiscono un mondo vero, nell’autenticità della sua essenza, colta con autenticità di poetapittore che sa sentire come sa vedere. Una Cina-Europa, allora, che parla qui delle verità di dovunque, e antepone la globalità dell’uomo, l’essere contenti di star fermi, il fatto che altri ancora sono i modi per risolvere i problemi; dunque anche il problema del nostro AVVENIRE.
Mentre sto scrivendo queste note, elaboro anche un intervento che terrò all’Università Bocconi di Milano sulla Spiritualità in un incontro fra Oriente e Occidente. La parte islamica sarà affidata a due “musulmani d’Europa”: a Si Boubakeur Hamza, discendente diretto dello zio di Maometto e rettor magnifico dell’Università islamica di Parigi; e a me. Poi vi sono due occidentali dell’India: Pietro Verni e non rammento quale donna. La coincidenza mi pare emblematica. Se di coincidenze si può parlare, ché nulla arriva a caso: vi è un interesse crescente, in Occidente, per le questioni dello spirito, e si riconosce che almeno in questo l’Oriente ha molto da dire. A me poi piacerà dimostrare che l’Islam ha dato anche il Sufismo: quella mistica estrema che pone l’essere umano di là dai limiti della materia, in sintonia col divino. Dunque l’Islam non è solo la manifestazione politica di Khomeini, così come l’arte d’Europa non può essere solo consumismo. Qualità e accademia ve ne sono ancora a piene mani, e spirito e sentimento ancora, ancora poesie. Le affermazioni vanno suffragate da testimonianze? Chiamo Pacor sul banco dei testimoni! Ma il testimone afferma uno stato che tutti noi viviamo; è una figura necessaria per confermare, non per creare. Siamo tutti noi i CREATORI. Ognuno è parte di questa realtà, e ad ognuno compete la costruzione e la fruizione del costruito. Non restiamocene con le mani in mano. E’ diritto comune essere partecipi.
La felicità consiste nell’avere entusiasmo.
Come in un piccolo seme trovi un grande albero,
coltivandoti con l’entusiasmo troverai dentro di te
una foresta immensa con le albe e i tramonti e gli animali.